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Neil Young e Joni Mitchell
di Marco Re "Rock63"SCARICA IN FORMATO ZIP le schede sui Cantautori americani
(questi articoli appartengono all'autore, tutti i diritti riservati)di Marco Re "Rock63"Neil & Joni / Prima puntata : Neil Young
clicca qui per l'articolo sui quattro classici della discografia di N.Young ristampati su cd (2003)
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Entrambi canadesi , sono due pilastri della canzone d'autore americana. Impossibile in poco spazio tracciare una seria nota bio-discografica senza cadere nella sciatteria: consapevole di correre questo rischio lo faccio premettendo che questi che seguono sono solo veloci note sintetiche:
Neil Young approda dal Canada alla California nei primi anni 60 dove conosce il chitarrista Stephen Stills e fondano i BUFFALO SPRINGFIELD che insieme ai BYRDS sono i due gruppi seminali per quanto riguarda la fondazione di un nuovo modo di fare musica: l'elettrificazione di certe atmosfere tipicamente legate alla tradizione della musica country americana (pur tuttavia senza mettere in secondo piano la chitarra acustica), la creazione di armonie vocali sulla scia dei Beach Boys e testi che nulla hanno a che fare con "la gioia della vita nei campi" ma che portano in primo piano le contraddizioni socio politiche dell'America (le contestazioni nei campus, le prime esperienze con le droghe, la rivoluzione sessuale ecc...).Young dal canto suo è personaggio schivo e umorale e, in più, si porta addosso la maledizione della malattia (l’epilessia) e con Stills inizia da subito una sorta di amore/odio che accompagna i due fino ad oggi.
Infatti la straordinaria ma brevissima stagione del supergruppo CROSBY STILLS NASH & YOUNG che nei primissimi anni settanta produrrà due capolavori come DEJA VU e il live FOUR WAY STREET è anche dovuta a questa rivalità che determinava l'impossibilità di stare insieme per lunghi periodi (unitamente poi al fatto che Crosby proveniva dai Byrds ed era un'altra geniale penna e ...anche lui ci metteva del suo...).
Forte di queste esperienze (poco significativo l'omonimo debutto su lp) Neil Young dà alle stampe tra il 69 e primi anni 70 tre capolavori assoluti: EVERYBODY KNOWS THIS IS NOWHERE, AFTER THE GOLD RUSH e il vendutissimo e conosciutissimo HARVEST. Poi il fallimento della generazione dei "figli dei fiori" comincia a produrre le prime morti per droga, per alcool...cadono Hendrix, Morrison, Joplin e tanti altri...e gli amici che fino a poco tempo prima avevano condiviso con te le stanze d'albergo i palcoscenici...
L'epilessia non aveva permesso a Young l'esperienza delle droghe per cui aveva sempre guardato con dubbiosità alle esperienze di "alterazione della coscienza" e la morte di alcuni amici lo gettò nella depressione e nel dolore più cupo: infila una serie di dischi sbagliati dietro l'altro ( o per lo meno non capiti dal pubblico e dalla critica che gli voltano le spalle e che pretendevano la replica di dischi che assomigliassero ai precedenti...anche se poi molti anni dopo TONIGHT'S THE NIGHT verrà riscoperto in tutta la sua oscura bellezza, così come ON THE BEACH, alcolico e bluesy).
Verso la fine degli anni settanta arrivano dischi come ZUMA (canto d'accusa contro la barbarie ai danni dei popoli danneggiati/saccheggiati/annientati da altri popoli conquistatori...di ieri e di allora) come AMERICAN STARS'N'BARS (Contiene una delle sue più belle ballate elettriche, la lunghissima "Like A Hurricane" anche se è il primo di una serie di dischi in cui Young mette mano al suo già nutritissimo archivio di brani incisi in vari periodi precedenti e mai pubblicati...ed è da allora che si comincia a parlare di una operazione ARCHIVES che ancora oggi non ha visto la luce...qualcosa come una decina di cd già pronti su cui Young sta lavorando da una vita) o come il famoso "COMES A TIME" che sul finire degli anni 70 gli regalerà nuova popolarità grazie anche a un suono molto easy listening.
Poi il capolavoro che lo farà amare alle nuove generazioni di ventenni dei fine anni settanta RUST NEVER SLEEPS...mentre tutti impazzano per il punk... una facciata acustica e una elettrica...furibondamente elettrica...la stessa canzone che apre (acusticamente) e chiude (elettricamente) il disco...una riflessione amara sulla vita sulla giovinezza che passa, sui furori della giovinezza e la famosa frase "It's better to burn out than to fade away" che molti anni dopo Kurt Cobain lascerà come suo biglietto d'addio al mondo.
Neil & Joni/ seconda puntata : Neil Young
Negli anni 80 Neil Young cambia casa discografica (si accasa con la neonata Geffen) e...cambia davvero...in sprezzo al nuovo contratto e in barba a tutta la critica, pubblica ogni anno un disco radicalmente diverso dal precedente ma quel che è peggio...diverso musicalmente da tutto ciò che anche solo lontanamente poteva essere un disco alla Neil Young. Il discografico David Geffen deve essere svenuto quando sul suo tavolo arrivò TRANS (un disco completamente elettronico con tanto di vocoder che spersonalizza la sua voce completamente...avete presente un mix tra kraftwerk e Rockets!!??) poi un disco di soli 25 minuti di puro Rockabilly poi un disco registrato a Nashville di puro country poi poi poi...il pur apertissimo Geffen non deve averci più visto "Ma io volevo solo un disco di Neil Young" e il canadese "Ma anche questo è Neil Young", come a dire : ormai posso permettermi il lusso anche di divertirmi con la musica, sperimentare, scoprire nuove strade. Inevitabile la rottura del contratto: Neil Young ha altri problemi per la testa...la creazione di una organizzazione per il sostegno dei bambini con handicap. Infatti la vita, ancora una volta, lo ha messo alla prova: il suo amatissimo primogenito Zeke, nato verso la fine anni 70 è affetto da una grave sindrome.
Poi accade qualcosa di inspiegabile: con dischi come LIFE , FREEDOM , RAGGED GLORY Neil Young diventa una sorta di padrino spirituale dei nuovi rocker americani e per il movimento grunge, con in testa i Pearl Jam con i quali addirrittura inciderà un disco nel 1995 (MIRROR BALL).Nel '94 c'era stato SLEEPS WITH ANGEL dedicato di fatto a Kurt Cobain, poco prima la splendida canzone PHILADELPHIA composta per l'omonimo film e che entrerà in lizza per gli Oscar (come concorrente avrà "Streets of Philadelphia" di Springsteen che vincerà) e l'omaggio al suo disco di più grande successo Harvest con HARVEST MOON.
In questi ultimi anni ha alternato dischi di grande qualità alternati a prove più incolori ma rimane sempre una voce tra le più importanti del panorama cantautorale e musicale d'america. Si ascolti ad esempio anche il bellissimo ultimo album ARE YOU PASSIONATE? uscito quest'anno e che porta le tracce della tragedia dell'11 settembre (la famosa "Let's roll" diventata ormai un grido di battaglia - mi si perdoni l'espressione - per incoraggiare la ripresa della vita: il brano ricorda l'eroica sommossa dei passeggeri dell'aereo che doveva andare a schiantarsi sulla Casa Bianca) insieme ad altri ottimi pezzi sia dal punto di vista della freschezza musicale (non dimentichiamo che Young ha quasi sessant'anni) che dal punto di vista della poeticità delle liriche. Ecco...qualsiasi discorso su Neil Young ha poco senso se non si leggono anche i testi...quel suo linguaggio pieno di metafore, di immagini quasi cinematiche, insomma, quel suo linguaggio pieno di poesia.
Neil & Joni/ terza puntata: Joni Mitchell
“Ho guardato la vita da entrambi i lati
dalla parte della vittoria e dalla parte della sconfitta ma
in qualche modo, ancora,
il mio ricordo della vita è un’illusione,
la vita non la conosco affatto” (Both sides now)
Parlare di Joni Mitchell oggi è un compito difficile: per i più giovani probabilmente è solo un nome che dice poco o nulla, magari incontrato per caso leggendo una recensione di uno dei dischi di Tori Amos, di Fiona Apple o di qualche altra ottima cantautrice o “riot girl” anglo-americana.
Joni Mitchell è stata poche volte nelle zone alte delle classifiche di vendita dei dischi ma il suo nome oggi è circondato da un senso di rispetto e di reverenza come solo si tributa ai più grandi.
Potremmo dire che Joni Mitchell è oggi considerata la caposcuola della canzone d’autore al femminile o, con una locuzione un poco ridicola, la madre di tutte le cantautrici dagli anni 70 a oggi.
Iniziamo invece col dire che Joni Mitchell ha da poco compiuto 59 anni e, da pochi giorni, è arrivato anche in Italia “TRAVELOGUE”, il suo ultimo disco che, purtroppo, rischia - per volontà della stessa Mitchell - di essere anche l’ultimo. Infatti questo album è stato preceduto da feroci polemiche della Mitchell contro l’industria discografica colpevole, secondo lei, di sacrificare l’arte e le ragioni dell’arte e della libera espressione degli artisti a favore invece della “musica di plastica” e delle “star tutte cosce e tette” in nome del profitto.
Joni Mitchell è sempre stata, per altro, artista anomala che sempre poco, molto poco, ha concesso alle ragioni dell’industria, perseguendo invece con coerenza una strada che, se non l’ha mai portata ai vertici delle classifiche di vendita, le ha però concesso di costruire una carriera fatta di splendidi, raffinati dischi.
Canzoni come poesie o acquarelli (Joni Mitchell è anche una straordinaria pittrice al punto che tale attività ha preso sopravvento sulla musica, soprattutto negli ultimi anni), musica non di immediata fruibilità ma che richiede tempo e passione: il suo modo di comporre – per accordature aperte – è diventato famoso e ha fatto scuola. Le aspre ritmiche e le linee melodiche che si spezzano improvvisamente sono le tavolozze su cui la voce di Joni si innalza e s’abbassa raggiungendo effetti ritmico-timbrici vocali straordinari per ampiezza e gamma espressiva (è “piccolo – soprano”).
Ma facciamo un passo indietro.
Nasce in Canada il 7 novembre 1943 e sin da ragazzina il suo talento, soprattutto pittorico, emerge prepotente al punto che il suo insegnante di lettere la sprona verso la composizione poetica e la scrittura. Si iscrive al College of Art e inizia a frequentare i folk-club e a trovare il coraggio di esibirsi davanti a un pubblico, alternando esecuzioni di classici del repertorio folk alle sue prime composizioni. La svolta è la partenza della Mitchell per la California allora – metà anni 60 – sorta di nuova terra promessa, patria dei figli dei fiori (flowers power), dei nuovi ed emergenti movimenti libertari e pacifisti. In California entra in contatto con il “giro” dei musicisti che lì erano convenuti per essere protagonisti di una delle più esaltanti stagioni per la musica e per la creatività. Sarà proprio David Crosby (Ex Byrds e attuale C S & N) a produrre il suo album d’esordio intitolato semplicemente “Joni Mitchell” ma da tutti conosciuto come “SONG TO A SEAGULL” (1968): chitarra e voce sono le sole protagoniste (scelta coraggiosa in un epoca in cui l’LSD “suggeriva” partiture sovraccariche di suoni e di colori!) oltre alle liriche estremamente personali, autobiografiche che vedono per la prima volta una donna mettersi a nudo, svelare le proprie debolezze, le proprie incertezze, le sue ansie di libertà, la propria visione del mondo (“… i castelli di sabbia crollano/e umanissima è la fame/ e gli uomini hanno fame/ di mondi a loro preclusi.) e dei complessi rapporti interpersonali e con l’altro sesso (“E’ arrivata una donna in città/convinta di amarli tutti: quello che la pensa/quello che a volte telefona/quello che le manda lettere con i fatti suoi e scarabocchi/Lei li ha portati dentro i suoi sensi/Loro hanno riso dentro la sua risata/Ma ora è tempo che lei prepari le sue difese/per paura che qualcuno la richieda/per l’eternità/Lei che è così impegnata a essere libera”).
Il successivo album (del 1969) è “CLOUDS” ed è ancora un disco per sola voce e chitarra quasi come se la Mitchell avesse come priorità quella di non mettere le liriche in secondo piano rispetto alla musica. NUVOLE, come quelle che si stanno addensando sull’America che ha scelto di mandare migliaia di giovani a morire in Vietnam. Non a caso un brano contenuto in questo disco (The fiddle and the drum) è “a cappella” (eseguito cioè per sola voce) ed è uno dei più feroci attacchi contro la politica americana del tempo:
“Che tempo è questo/per scambiare la stretta di mano con il pugno?/E così ancora una volta/Oh America, amica mia, /e così ancora una volta/stai lottando contro tutti noi/ e quando ti chiediamo perché/ alzi le tue bacchette e urli e noi a terra…siamo arrivati tutti al punto di temere il colpo del tuo tamburo”.
Ma è anche il disco che contiene “Both Sides Now” una delle sue più belle e intense composizioni, ritratto di una donna che sta imparando a convivere con il senso di disillusione rispetto alla vita e all’amore.
Il 1970 è l’anno della consacrazione: “LADIES OF THE CANYON” è un disco solare e, per la prima volta, alla chitarra si aggiungono il pianoforte e altri strumenti (percussioni, violoncello, flauto, clarinetto) e una (non dichiarata esplicitamente) collaborazione con Crosby Stills Nash e Young. E’ probabilmente a tutt’oggi il suo disco di maggior successo di vendite grazie a un equilibrio interno e a una serie di brani tra i suoi più memorabili come “Big Yellow taxi” (campionata qualche anno fa da Janet Jackson in “Til it’s gone” su “Velvet Rope”) forse una delle prime canzoni di denuncia dello scempio compiuto dall’uomo a danno della natura e l’ambiente; “For free”, primo attacco all’industria discografica e alle logiche di mercificazione dell’arte, e la maestosa “Woodstock” , ritratto di una generazione che aveva visto i propri sogni di libertà, amore e musica infrangersi contro le logiche di potere e di sangue del Vietnam
(“…e mi sento come un ingranaggio in una ruota che gira/bè, forse è solo la stagione dell’anno/o forse la stagione della vita/non so chi sono…E sognai di vedere bombardieri/in cielo con i loro cannoni/tramutarsi in farfalle/sopra la nostra nazione”) e la straordinaria
“The circle game” (“…prigionieri sulla giostra del tempo/non possiamo guardare indietro ma solo/guardare/da dove veniamo/e girare e girare e girare/in questo girotondo”).
Dopo l’uscita di questo disco i riflettori della stampa si accendono sul personaggio Joni Mitchell e arrivano anche gli aspetti sgradevoli legati al successo: i pettegolezzi che la stampa alimenta sulle sue burrascose relazioni prima con David Crosby, poi Graham Nash, poi James Taylor e l’ esibizione al festival dell’ isola di Wight - interrotta bruscamente da un fan che sale inaspettatamente sul palco e rischia di aggredirla - lasciano l’artista in uno stato di profonda crisi artistica e personale: il risultato è “BLUE” (1971).
Registrato quasi in completa solitudine al pianoforte e alla chitarra (con qualche sporadico intervento dei soliti Stills, James Taylor e Russ Kunkel) BLUE è il disco della maturità ed è considerato non solo il suo capolavoro ma figura puntualmente inserito nelle classifiche dei TOP 100 della storia del rock: disco non facile ma seminale, è una sorta di diario a cuore aperto in cui la Michell si mette a nudo di fronte all’ascoltatore : rispetto a se stessa e ai propri sentimenti “Quel che veramente voglio dal nostro amore/è che tiri fuori la parte migliore di me e anche di te…la gelosia/la brama di possesso è il nodo cruciale da sciogliere/e rende vana la possibilità di essere felici” (All I want); rispetto al fallimento di una generazione “Devi stare attento/puoi cavartela fra queste onde/acidi, sbronze, scopate/aghi, pistole e fumate/un sacco di risate e ancora risate/Tutti dicono che l’inferno è l’ultima moda/bè io non lo credo” (Blue) e degli ideali di questa generazione “A leggere il giornale cattive notizie come sempre/Nessuna speranza per la pace/Non è stato che un sogno di alcuni di noi” (California). Nonostante la complessità dell’opera, BLUE viene accolto entusiasticamente da critica e pubblico: la cosa non scompone assolutamente la Mitchell che, anzi, va avanti per la sua strada in assoluta libertà e autonomia. “Blue” chiude un periodo artistico e personale di grandi soddisfazioni ma anche di grandi tormenti culminato con la decisione di abbandonare l’etichetta discografica che aveva favorito il suo lancio e firmare un nuovo contratto con l’Asylum chiedendo esplicitamente assoluta e totale libertà di movimento.
Neil & Joni/ quarta puntata : Joni Mitchell
"Sognare ad occhi aperti attenua il male di vivere
Processioni di amori e amici scomparsi
appaiono e svaniscono in dissolvenza" (A Chair In The Sky)
Il primo disco per la Asylum è "FOR THE ROSES” (1972): la Mitchell nel retro di copertina appare nuda di spalle in riva al mare come se simbolicamente si fosse spogliata una volta per tutte degli abiti di folksinger e portavoce della generazione degli hippies.
Le canzoni, più complesse nelle ritmiche e nelle strutture melodiche, sono arrangiate includendo in maniera stabile una sezione ritmica e una sezione fiati e un’atmosfera raffinatamente jazz aleggia su tutto il disco. “FOR THE ROSES” segna un ulteriore passo avanti nella ricerca musicale che, di li a pochi anni, la porterà su territori assolutamente inediti ed inattesi, come se volesse evitare a tutti i costi di rimanere intrappolata in un ruolo predefinito una volta per tutte. Il disco viene accolto benissimo sia dalla critica che dal pubblico anche perché, nonostante i suoni più ammiccanti, la Mitchell non sembra affatto rinunciare, da un punto di vista lirico, alla profondità di sguardo alla quale ha abituato il pubblico: in “Banquet” da voce alla cattiva coscienza di una America che sta vedendo naufragare il “sogno americano”:
"Alcuni si rivolgono a Gesù/altri all’eroina/Altri ancora vagano alla ricerca di un cielo pulito e di un ruscello potabile/Alcuni osservano l’intonaco sfaldarsi/ Altri i figli crescere/Altri ancora seguono i loro titoli e investimenti sperando nell’affarre del secolo/Il Sogno Americano);
in “Let The Wind Carry Me” si mette a nudo (“A volte sento come il desiderio di sistemarmi/ e crescere un bambino con qualcuno/Ma poi passa come l’estate/e ridivento un seme selvatico/Lascia che mi porti il vento) e in “For The Roses” attacca il mondo dello show-biz con parole pesantissime:
"Per i discografici non sei che una fetta della torta/ si contendono il tuo ultimo uovo d’oro <…>/Probabilmente sembrerò un’ingrata/ Con i denti affondati nella mano/ che mi dà tutto ciò/ di cui non posso ancora fare a meno).
Nel gennaio 1974 esce, dopo un lungo lavoro di sala d’incisione e dopo lungo tempo trascorso dalla Mitchell a cercare i musicisti “giusti” per le sonorità che aveva in testa, “COURT AND SPARK, un disco che spiazza ancora una volta i fans per la raffinatezza e ricercatezza delle atmosfere sonore che fondono jazz, rock , rythm’n’blues e pop. La critica grida al tradimento accusando la Mitchell di essersi commercializzata ma il pubblico apprezza il disco che, di fatto, sarà uno dei più venduti della sua carriera. Tutto l’anno viene trascorso in un lungo tour che la vedrà spesso al fianco di nomi quali Beach Boys, Neil Young, Eagles, Santana, The Band e ai ricostituiti CSN&Y e arriverà il primo album live della sua carriera, il doppio “MILES OF AISLES”.
Nel 1975 pubblica “THE HISSING OF SUMMER LAWNS” quasi una risposta alle critiche ricevute con il disco precedente: un doppio album praticamente di musica ai limiti dello sperimentalismo quasi integralmente basato sull’esplorazione dei ritmi e delle percussioni.
In quel 1975 nessuno capì la portata rivoluzionaria di quel disco: la critica quasi all’unanimità lo stronca e il pubblico si ritrova tra le mani un disco complesso poco orecchiabile e di non facile fruizione. Per la prima volta in un disco viene utilizzato un campionamento: la Mitchell campiona un ritmo di percussioni africane e tutto il disco è giocato su ritmi ossessivi e oscuri. Questo “lato oscuro” emerge anche nelle liriche tutte giocate sulla metafora, sulla simbologia e su una visionarietà quasi apocalittica.
E’ del periodo l’incontro con Jaco Pastorius, straordinario bassista del gruppo jazz-rock Weather Report : questo incontro sarà determinante per la nascita dell’ennesimo capolavoro della Mitchell, “Hejra” (1976) disco praticamente perfetto tutto giocato sui severi dettami che la Mitchell impone ai musicisti: secondo la Mitchell il risultato finale doveva avvicinarsi a quella che , in pittura, è la gamma cromatica delle sfumature di un unico colore. Intense, come sempre, anche le liriche, fortemente introspettive come il brano che da il titolo al disco (…sono felice di starmene da sola/ eppure a volte basta il lievissimo tocco di un estraneo/ a farmi sentire un fremito nelle ossa/ Lo so, nessuno si scoprirà fino in fondo davanti a me/ chi va, chi viene e rimaniamo sconosciuti/ ciascuno allo stesso tempo profondo e superficiale/ tra il forcipe e la tomba) o in “Song for Sharon” ( quando c’è in gioco l’amore sono una stupida/ perché non so celare le emozioni/ quello che sento me lo si legge in viso).
L’incontro con i Weather Report proietta sempre più Joni Mitchell vicino al mondo del jazz e a forme musicali svincolate da qualsiasi schema: dagli sperimentalismi di “DON JUAN’S RECKLESS DAUGHTER” (1977), sicuramente uno dei suoi dischi più complessi e ostici; all’incontro con il jazzista Charlie Mingus che morirà proprio durante la fase di studio e di lavorazione di un progetto comune che la Mitchell lotterà per portare fino alla fine assoldando i migliori musicisti della scena jazz contemporanea (pur incompleto - per lo meno rispetto alle intenzioni originarie - “MINGUS” vedrà la luce nel 1979). Questo periodo sarà concluso dalla pubblicazione, nel 1980, del doppio live “SHADOWS AND LIGHT” che dimostra come la Mitchell abbia saputo superare indenne la rivoluzione del punk e della new wave che avevano fatto cadere nel dimenticatoio “i mostri sacri” del rock. Semplicemente la Mitchell si era allontanata dai territori del rock per avventurarsi in territori nuovi.
Neil & Joni/ quinta puntata : Joni Mitchell
Il live “Shadows and Light” chiude comunque un’epoca perché il temperamento sempre inquieto della Mitchell non la porterà a rimanere ferma sulle posizioni conquistate.
Ancora una volta spiazza tutti quando, per la nuova etichetta discografica Geffen, esce nel 1982 “WILD THINGS RUN FAST”, bellissimo collage di canzoni di puro e semplice pop-rock ( è forse a tutt’oggi uno dei suoi album più “facili” e commerciali) dal suono molto “radiofonico” : sia la critica che il pubblico accoglieranno piuttosto tiepidamente questo disco nonostante l’innegabile eleganza e bellezza di molte canzoni che, per la prima volta dopo anni, suonano più solari nonostante lo sguardo impietoso che la Mitchell sembra rivolgere a se stessa in “Chinese café” (“Eravamo scatenate tanto tempo fa/ ai tempi della nascita del rock’n’roll / ora i tuoi figli vengono su ben dritti/ e mia figlia è un estranea/ L’ho messa al mondo/ ma non sono stata capace di crescerla”) o in “Solid Love” (“L’amore mi ha sempre reso inquieta/ non riuscivo a rilassarmi e ad essere me stessa/ era più come una strana malattia che non come questo solido amore…”). Tutto il disco è una riflessione sul tema dell’amore e tra le perle c’è “Love” ispirata da un passo della prima lettera ai Corinzi di S.Paolo di Tarso. Nonostante la tiepida accoglienza riservata al disco, la Mitchell si imbarca per la prima volta nella sua carriera in un lunghissimo tour mondiale che toccherà – per la prima ed ultima volta – anche l’ITALIA IN UNA MEMORABILE ESIBIZIONE ALL’ARENA DI VERONA NELLA TARDA PRIMAVERA DEL 1983.
Io avevo vent’anni, compiuti da poco, nel frattempo ne sono passati altri venti, ma ricordo come fosse ieri quella figura longilinea dai lunghi capelli biondi avvolta in uno splendido abito bianco e lungo fino ai piedi entrare sul palco dell’arena, imbracciare la chitarra, gettare uno sguardo d’intesa ai suoi musicisti e…riempire l’arena di magia, note e colori per due ore.
La tournée mondiale si rivelerà però fallimentare sia dal punto di vista economico sia per un’affluenza di pubblico tutto sommato modesta: nell’era di MTV molti riflettori si erano spenti o erano puntati altrove; molti nomi che avevano fatto la storia del rock sembrava avessero ormai i giorni contati perché tutti i media erano troppo occupati a seguire le masse in delirio per Duran Duran, Spandau Ballets ecc. (Marco Re)
Bisognerà attendere il 1985 per un nuovo disco: “DOG EAT DOG” uscirà tra l’indifferenza generale e nonostante sonorità molto moderne – almeno per gli anni ottanta – frutto di un massiccio utilizzo di campionatori, sintetizzatori e computer utilizzati sotto la sapiente guida del geniale produttore Thomas Dolby, il disco – costato parecchi mesi di lavorazione e parecchi dollari – fu un flop senza precedenti. E non lo aiutarono certo le liriche decisamente troppo poco “politically correct” (dirette contro l’imperante cultura dell’immagine, contro i predicatori di qualsiasi genere e tipo e contro l’amministrazione Reagan). Una tournée già programmata viene annullata, in una delle scarse esibizioni del periodo viene fischiata e i critici beffardi la disegnanocome una “cantante inacidita ormai sul viale del tramonto”.
La Mitchell annuncia a più riprese di volersi ritirare dalle scene e si dedica sempre più alla pittura e ad altre arti figurative.
Le cose non andranno meglio con il successivo “CHALK MARK IN A RAIN STORM” (1988): nonostante l’ottimo livello qualitativo e la presenza di ospiti come Peter Gabriel, Willie Nelson e altri, il disco viene accolto abbastanza bene dalla critica ma ignorato quasi completamente dal pubblico. Questo album segna comunque un ritorno ad atmosfere più intimiste e l’uso dell’elettronica è, questa volta, più moderato. I testi, ancora una volta, sono il frutto di un periodo di amarezze e di disillusione al quale però la Mitchell riesce a guardare con sufficiente distacco senza perdere la forza e il coraggio di lanciare pesanti strali contro un’America che va perdendo qualsiasi valore in nome del profitto e della carriera (non dimentichiamo che gli anni 80 sono stati definiti l’era del rampantismo sociale, dello yuppismo, dell’arrivismo, dell’individualismo e l’amministrazione Reagan aveva diffuso questi come i soli valori vincenti).
Sicuramente con questo disco si chiude il decennio meno fortunato per la Mitchell : 3 dischi in dieci anni e l’attività concertistica praticamente ridotta a poche e sporadiche esibizioni.
Ma nel 1991 con “NIGHT RIDE HOME” Joni Mitchell ha di nuovo, e per la prima volta dopo anni, la stampa specializzata ai suoi piedi: il disco viene accolto come uno dei suoi migliori lavori dai tempi di “Blue”. Le canzoni che lo compongono sono il frutto di un maniacale lavoro di ricerca e di studio sulle sonorità – prevalentemente morbide e acustiche e con un utilizzo non invasivo dell’elettronica – definite dalla stessa Mitchell “variazioni in chiave di Do Maggiore – gli accordi in maggiore sono accordi positivi, è una tonalità estremamente solare”. Questa affermazione sembra contrastare con il titolo che allude invece ad atmosfere notturne e a una sorta di ritorno alle proprie radici: basta ascoltare ad esempio “Cherokee Louise” terribile testimonianza di una storia di violenza sessuale (“corre a casa dal padre adottivo/ che tira giù la cerniera/ e la schiaffa in ginocchio con violenza”) o la straordinaria rilettura in musica del “Secondo Avvento” di W.B.Yeats “Slouching Towards Bethlehem”.
L’anno dopo, per la prima volta dopo dieci anni, la Mitchell accetta di esibirsi in un concerto anche se rimarrà salda nel suo proposito di non imbarcarsi mai più in tournee: ormai solo la pittura sembra essere al centro dei suoi interessi e dichiara di non voler più avere nulla a che fare con le classiche strategie commerciali legate alla pubblicazione di un disco.
A riprova di quanto detto non rinnova il contratto discografico con la Geffen e nonostante l’interesse attorno al suo nome si sia riacceso, scompare dalle scene fino all’ autunno 1994 quando a sorpresa arriva “TURBULENT INDIGO” che verrà accolto dalla critica come un capolavoro. Il disco è quasi interamente – se si eccettuano sporadici interventi strumentali di alcuni suoi tradizionali collaboratori – suonato dalla stessa Mitchell grazie all’ausilio di una speciale chitarra (VG-8) costruita appositamente per consentirle le complesse variazioni di accordature che solitamente costituiscono l’ossatura delle sue canzoni grazie alla semplice pressione di un tasto (da quanto è dato a sapersi è uno strumento che sfrutta la tecnologia midi grazie a uno speciale sistema computerizzato). Questo disco frutta alla Mitchell numerosi premi e riconoscimenti negli anni a venire (tra cui l’ingresso nella Rock’n’Roll Hall Of Fame”) che però non cambieranno di una virgola le sue strategie artistiche: niente tour, niente promozione, niente tv.
L’unica autoindulgenza che si concede è quella di pubblicare nel 1996 due antologie in contemporanea (sono le prime dopo 30 anni di cariera!) “HITS” e “MISSES”: i brani sono stati scelti dalla stessa Mitchell e nel primo volume troviamo i suoi più grandi successi, mentre nel secondo le canzoni che l’autrice ritiene ingiustamente sottovalutate, meno note e degne di una riscoperta.
“TAMING THE TIGER” esce nel 1998 ed è il terzo disco del decennio e in tutto e per tutto
(a partire dalla copertina) costituisce un dittico perfetto con il disco di quattro anni prima. Nessuna concessione alle mode o ai facili gusti del pubblico, con “TAMING THE TIGER” la Mitchell continua e sviluppa ulteriormente lo stile - rigoroso ed essenziale - inaugurato con “Turbolent Indigo”. E alle soglie dei sessant’anni lo sguardo dell'artista è ancora scevro da facili compromessi: si ascolti “No Apologies” (“cosa fa di un uomo un uomo/ in questi tempi difficili/ mentre i signori della droga comprano le banche/ e i signori della guerra irradiano gli oceani/ e gli ecosistemi muoiono!/…cosa è successo a questo paese?/ Avvocati e strozzini / Stanno mandando in rovina l’America”) o la stessa “Taming The Tiger” (“Sono una fuggiasca dall’industria discografica/Musica liofilizzata/ Astuzia da ragazzine!/ Genuine schifezze per adolescenti/ su e giù per le frequenze radio/ stile mercenario!/Sono così stufa di questo gioco”).
A tutt’oggi le otto canzoni di “Taming The Tiger” sono le ultime composizioni originali pubblicate dalla Mitchell: infatti nel 1999 comincia ad accarezzare l’idea di realizzare un progetto del tutto nuovo e particolare. Incidere con una vera orchestra sinfonica.
Il giorno di San Valentino 2000 esce “BOTH SIDES NOW”: due canzoni del repertorio più classico della Mitchell aprono e chiudono una carrellata di celebri standards del jazz. La scaletta del disco non è affatto casuale ma i brani ripercorrono dal primo all’ultimo tutti gli stati d’animo che gli esseri umani vivono in rapporto a questo sentimento, dai primi turbamenti, alla passione ceca, alla follia e il lento disgregarsi della passione che lascia il posto alla abitudine e alla noia, fino all’abbandono e alla perdita dell’amore con la conseguente disillusione…fino al prossimo innamoramento.
La Mitchell è accompagnata dalla straordinaria London Session Orchestra al suo completo e il risultato lascia senza fiato. Un’ora di musica pura, senza tempo e senza età dove i classici anni trenta e quaranta si fondono alla perfezione ed interagiscono con le due canzoni “A case of You” da “Blue” e “”Both Sides Now” da “Clouds”.
Questa esperienza si rivelerà talmente entusiasmante per la Mitchell che ripeterà l’esperimento con il nuovissimo “TRAVELOGUE” compilando una sorta di antologia delle sue canzoni che più si adattano a un accompagnamento orchestrale. Il risultato è ancora una volta straordinario perché davvero la Mitchell consegna “alla classicità” le sue canzoni.
“Travelogue” significa più o meno “racconto di viaggio”: un viaggio che dura da trent’anni e che ancora stupisce per il rigore con cui questa artista guarda alla vita, al mondo e al suo lavoro. Ha ridipinto una manciata di sue vecchie canzoni ora trasformandole ora reinterpretandole ex novo e la sua voce meno morbida che in passato, per le troppe sigarette, ma sempre bellissima, vola con eleganza e raffinatezza sulle melodie che l’orchestra crea. E i suoi dipinti che corredano il libretto…e quei tre quadri…le due torri in fiamme su cui una lingua di fumo disegna nel cielo una figura spettrale, un ritratto di Bush con sullo sfondo delle lingue di fuoco
(dalle sue spalle sorniona esce una vecchietta il cui nome…si…è proprio lei, la morte…) e un ritratto di Bin Laden che porta sulle spalle una lasciva donna bianca seminuda.
A che servono, a volte, le parole?
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