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Aneddoti su : MICK JAGGER, BEATLES, ISOLA DI WHITE (WOODSTOCK), RAVI SHANKAR, LEONARD COHEN, CAT STEVENS , ELTON JOHN , BOB MARLEY e... "PIERO E CINZIA"Antonello Venditti prima che autore e musicista è ovviamente un grande appassionato di musica. Durante la sua carriera ha vissuto tutti gli avvenimenti musicali più importanti degli ultimi anni e ha conosciuto i più grandi artisti internazionali.Qui di seguito riporto alcuni aneddoti legati a personaggi del mondo della musica entrati nella storia della canzone internazionale.
su MICK JAGGER
Il 27/4/2002 in occasione del primo raduno di ammiratori di Venditti, Antonello ha raccontato che nell'estate del '66, ancora ragazzo, si trovava a Londra con la "Cinquecento" di un amico. Tappa di quel viaggio fu la prigione dove in quei giorni era rinchiuso Mick Jagger, leader dei Rolling Stone.
Antonello e l'amico aspettarono l'uscita del mito del rock ascoltando su un mangiadischi arancione ("'na cosa schifosa"), "We love you". Venditti ha dichiarato che non ha mai capito come gli Stones e Jagger avessero potuto fare questa canzone visto che lo stesso Jagger era dietro le sbarre.sui BEATLES
In una data non lontana dal '66, Antonello partecipò come molti romani allo storico concerto dei Beatles al Teatro Adriano di Piazza Cavour (ora è diventato un cinema). Venditti ha dichiarato il 27/4/2002 all'incontro con i suoi ammiratori di conservare gelosamente il biglietto dell'evento.
su ISOLA DI WHITE (WOODSTOCK)e RAVI SHANKAR
Altro grande evento della musica internazionale fu il famoso raduno di "Woodstock"; Antonello come tanti giovani "alternativi" dell'epoca vi partecipò. Di quell'evento oltre ai mitici Bob Dylan, Joan Baez, Jimi Hendrix , Venditti ricorda con passione Ravi Shankar (il quale passò anche per il Folkstudio).
di Stefano Solegemello (questo articolo è redatto per fini di studio e di ricerca e appartiene al suo autore, vietata la riproduzione e lo sfruttamento commerciale, consentito l'uso privato)
DA ELTON JOHN A CAT STEVENS A LEONARD COHEN
(Antonello Venditti, dall'intervista tratta da MUSIKBOX 2001)"Ne "L'orso bruno" c’erano orchestre varie e…Vince Tempera. Lui aveva realizzato uno dei primi dischi di Guccini: “L’isola non trovata”, e mi sembrava la persona perfetta a cui parlare della mia vocazione musicale che già allora si era spostata su un pop sinfonico e un pò barocco, in cui il pianoforte era incastrato nell’orchestra. Un po’ “jhonianamente”, nel senso di Elton John, perché quando si suona uno strumento, nel caso particolare il pianoforte, sono inevitabili delle similitudini con artisti che, da qualche altra parte del mondo, utilizzano determinate innovazioni. A quel tempo non avevo ancora sentito Elton John, ma già suonavo, fin da piccolo, con la tecnica del pedale, sia sustain, ma anche del pedale dei bassi. Erroneamente allora si disse che mi ispiravo a Elton John, ma in effetti non lo conoscevo proprio. Poi si disse ancora che ero “catsteveniano”. Questo è possibile perché la mia voce è un po’ belante, Cat Stevens poi, faceva canzoni più simili a quelle che giravano nell’area che frequentavo e per questo divenne un beniamino, non solo mio, ma anche di De Gregori e del resto del gruppo. Il suo genere poi si affiancava a quello di Dylan o di Leonard Cohen , ma in termini più appassionati, più accorati. Ho provato tante volte, quando ho fatto dei concerti, a snidarlo per farlo venire in Italia a suonare insieme, ma non ci sono mai riuscito. Invece con Leonard Cohen ho una bella esperienza risalente proprio a quei tempi, perché Cohen venne in Italia e ne divenni molto amico destando l’invidia di Francesco. Lui lo conobbe proprio grazie a me, in quanto una sera portai Leonard al Teatro dei Satiri ad un concerto di Piero Ciampi. De Gregori quando lo vide rimase fulminato e ricordo che gli disse “sai che io ho tradotto Suzanne?”, e lui rispose laconico “spero che tu sia anche l’ultimo”. Ovviamente ci rimase malissimo anche se, personalmente, credo che Francesco abbia scritto le più belle traduzioni di Cohen. Era poi il periodo dei concerti organizzati dalla RCA al Trianon, e ricordo che Leonard era a Roma per presentare il libro “Belli e perdenti”, quindi non per motivi musicali, ma colsi, comunque, l’occasione per poter suonare con lui. Gli feci ascoltare in anteprima l’album “Quando verrà Natale”, ma commisi un errore madornale, perché c’era “A Cristo” con il riferimento a Moshè Dayan, dimenticandomi che lui era ebreo .Comunque, mentre parlavo, lui beveva del pessimo vino, si appuntava tutto quello che succedeva e piangeva sulla foto di Joni Mitchell. In ogni caso il sabato successivo lo invitai al Trianon, dove dovevo suonare, ma poche ore prima del concerto, alle quattro dei mattino, sparì e non l’ho più rivisto."
BOB MARLEY E "PIERO E CINZIA" (intervista di Sandro Neri)
MILANO, 10 MAGGIO 2001 - Conserva ancora il biglietto, custodito nello scrigno dei «cimeli» più preziosi. E un mare di ricordi: la folla che riempiva lo stadio, Milano che «quel giorno era Giamaica», il fascino del re del reggae che «non era una star, ma soltanto uno di noi». C'era anche Antonello Venditti tra i fans di Bob Marley, al concerto del 27 giugno 1980 a San Siro. Quell'evento, che richiamò al «Meazza» quasi centomila persone, è parte integrante della sua storia di cantautore: «Dall'emozione di quella serata e dall'incontro con uno dei giovani che come me era andato a Milano per assistere al concerto è nata anche una canzone, "Piero e Cinzia", che credo rappresenti, oltre che un capitolo importante della mia musica, tutta una filosofia tipica di quegli anni», racconta Venditti mentre l'amico ritrovato Francesco De Gregori, con lui per provare un brano da regalare a Fiorella Mannoia, attacca con la chitarra «No woman, no cry».
Venditti, sono passati 21 anni da quel concerto, 20 dalla morte di Marley: cosa ricorda di quei giorni?
«Sicuramente una grossa emozione: la sera prima del concerto, incontrai Bob Marley in ascensore. Casualmente, alloggiavamo nello stesso albergo di Milano. Lui, senza sapere neppure chi fossi, mi invitò alla festa che la casa discografica aveva allestito per lui. Così, mi ritrovai di fronte a una torta immensa, a fianco di una star che in realtà faceva di tutto per non essere tale».
Poi nacque "Piero e Cinzia", rimasta un po' come il romanzo in musica di quella magica notte a San Siro...
«La canzone è una storia vera. Piero, giovane meccanico di Roma, assomigliava a Marley: aveva i capelli dei rasta, fumava marijuana. L'ho conosciuto la mattina dopo il concerto. Mi ha chiesto un passaggio in macchina, al casello dell'autostrada e nel viaggio fino a Roma mi ha raccontato di Cinzia. Erano arrivati insieme a Milano, per Marley. Ma una volta a San Siro lei si era dileguata nella folla, lasciandolo in lacrime».
Gli ingredienti giusti per una canzone di successo...
«In realtà ho impiegato quattro anni a scrivere il brano. Avevo la storia in testa, chiarissima. Ma sembrava impossibile raccontarla. Il pezzo è uscito nell'album "Cuore" e due anni dopo ho rivisto Piero: grazie a quella canzone Cinzia aveva deciso di tornare con lui».
Il concerto di Marley ha aperto anche una nuova stagione musicale nell'Italia di quegli anni.
«Vero. Fu il primo concerto totale: c'era gente venuta da Palermo, da Napoli. La musica non si sentiva benissimo ma il clima era stupendo, di grande energia. Girava anche molta "erba": quel concerto era una sorta di grande canna. Comunque, un evento indimenticabile di cui ho voluto conservare anche il biglietto».
La musica di Marley cosa rappresentava per lei, cantautore?
«Bob, per me, era lo Springsteen diverso. Mi colpiva il suo amore per il calcio, inteso come gioco di liberazione politica. Come uscita dal ghetto. In questo, credo che io e lui siamo molto vicini. Una cosa, però, mi spiace...».
Quale?
«Che nessuno abbia raccolto la sua eredità. Neppure quelli che suonavano con lui».
di Sandro Neri
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